Alberto Angelici
IL VENTRE DI PARIGI
Varca le porte
di floreali intrecci,
scendi negli antri grigi
e penetra con il mètro
nel “ventre di Parigi”.
Da un luogo all’altro
viaggia con gran velocità;
avesse potuto farlo Zola!
Avrebbe descritto
con magica penna
la fervida vita
sotto la Senna,
avrebbe ritratto
con grande maestria
la fretta, la paura, la follia.
Cunicoli bui e accese stazioni
dove ognuno insegue mete e direzioni
ed impilato su scale semoventi
accede al regno del sole e dei venti.
(Poesia di Chiara Moimas)
Quattro milioni e mezzo di persone trasportate ogni giorno, 16 linee, 303 stazioni, 220 km di binari, tunnel, passaggi, scale, ascensori, gallerie. Il metro di Parigi è un mondo.
Quarant’anni circa, mal portati, alto e di aspetto ossuto, il cranio di forma ogivale spunta dai radi capelli con l’effetto di un fungo in crescita nella sterpaglia di un prato. L’uomo scende i gradini della Stazione Concorde a ritmo costante, meccanico, le spalle leggermente curve. Un guizzo di semi-coscienza negli occhi grigi quando occorre passare la card elettronica sul sensore del tornello inox. Subito dopo lo sguardo ritorna vitreo e sembra non mettere a fuoco nulla di quanto lo circonda mentre il suo proprietario percorre la banchina della linea 12 assieme a dozzine d’altre persone d’ogni razza, età, colore.
Sono le 8 di sera, ora di punta, e i convogli s’inseguono nei tunnel a ritmo incalzante, uno ogni 45 secondi. Accanto a noi sfilano infinite mattonelle bianche, su ognuna una lettera dell’alfabeto. Tutte insieme, 44mila, riproducono il testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata nel 1789. Niente punteggiatura, nessuno spazio, come in un immenso puzzle che l’uomo non mostra di notare affatto mentre occupa un’estremità della lunga panca in legno naturale. Poco oltre, su di un’altra identica, dorme un clochard, invisibile nel bozzolo grigio del sacco a pelo, incurante della luce bianchissima che piove su di lui dal soffitto.
Passano veloci quattro ragazzine. Identiche in tutto, dai lunghi capelli biondi ai jeans elasticizzati alle scarpette in gomma con i lacci allentati, sembrano cloni della stessa creatura ma per un attimo portano una scarica di vitalità in un mondo catatonico. Superano tutti gli altri senza vederli e gli auricolari dello smartphone le isolano dall’ambiente circostante. Dirigono verso l’estremità della banchina da dove avranno forse migliori possibilità di trovare da sedere nell’ultima carrozza, a volte la meno presa d’assalto.
Una lunga folata d’aria che sa di polvere bruciata, plastica e ruggine. Arriva il treno. Come se il suonare suadente di un piffero magico avesse accompagnato l’aria spinta nel tunnel dal treno, le persone in attesa tornano in vita accalcandosi nei pressi delle porte che stanno per spalancarsi. Spesso chi sale non attende l’uscita di chi scende. I due flussi rallentano, sembrano esitare poi riprendono. A carrozza affollata i più veloci guadagnano le poche poltroncine vuote; quelli più lenti e i turisti imbranati restano a bocca asciutta. Quando il convoglio riparte brusco, annaspano in cerca di un sostegno, si guardano intorno ma non perdono d’occhio lo schema delle fermate, in alto sulla porta scorrevole. Gli habitué, invece, i locali, non si curano di nulla; perduti nei loro pensieri, non importa se in piedi o seduti, ondeggiano lenti nel dondolìo ipnotico del treno, gli occhi socchiusi, in attesa del momento di scendere.
Tra una fermata e la successiva capita che la carrozza divenga per qualche istante un palcoscenico, quando un musicista sale a bordo esibendosi con amplificatore e base musicale o con uno strumento per poi allungare una mano chiedendo una moneta. Non insiste, non pretende, chiede a voce bassa così che senta soltanto chi vuol sentire. Non la musica né il canto hanno scosso l’apparente stato comatoso dei presenti ma offrono l’occasione ai turisti di alzare la fotocamera per un’immagine-ricordo. A seconda dell’età, lo sguardo dei viaggiatori può essere perso nel vuoto, affondato sempre sulla stessa pagina di un quotidiano o puntato sul display del cellulare mentre le dita volano su tasti e touchscreen. In ogni caso, sembrano tutti a mille chilometri l’uno dall’altro mentre li osservo e con nonchalance aziono non visto la fotocamera appesa al collo.
Si noterà che le immagini, tutte in bianco-nero, presentano un viraggio particolare, che definirei “petrolio”. Con esso ho cercato di rendere, o meglio interpretare l’atmosfera vagamente disumanizzante (da società post-atomica) di quel vasto mondo sotterraneo, la luce fredda che spesse volte pervade le stazioni delle sotterranee, specie quelle datate, e le stesse carrozze, nel contempo enfatizzando il senso d’isolamento che si percepisce fra le persone, sia in attesa sulle banchine che all’interno dei convogli.
Sarò grato per ogni considerazione, commento o critica vorrete esprimere, in tal modo consentendomi di ri-vedere le mie foto con occhi diversi, i vostri, e di ri-considerarle da altre, nuove prospettive. Grazie.
Bologna, sabato 16 maggio 2015
Varca le porte
di floreali intrecci,
scendi negli antri grigi
e penetra con il mètro
nel “ventre di Parigi”.
Da un luogo all’altro
viaggia con gran velocità;
avesse potuto farlo Zola!
Avrebbe descritto
con magica penna
la fervida vita
sotto la Senna,
avrebbe ritratto
con grande maestria
la fretta, la paura, la follia.
Cunicoli bui e accese stazioni
dove ognuno insegue mete e direzioni
ed impilato su scale semoventi
accede al regno del sole e dei venti.
(Poesia di Chiara Moimas)
Quattro milioni e mezzo di persone trasportate ogni giorno, 16 linee, 303 stazioni, 220 km di binari, tunnel, passaggi, scale, ascensori, gallerie. Il metro di Parigi è un mondo.
Quarant’anni circa, mal portati, alto e di aspetto ossuto, il cranio di forma ogivale spunta dai radi capelli con l’effetto di un fungo in crescita nella sterpaglia di un prato. L’uomo scende i gradini della Stazione Concorde a ritmo costante, meccanico, le spalle leggermente curve. Un guizzo di semi-coscienza negli occhi grigi quando occorre passare la card elettronica sul sensore del tornello inox. Subito dopo lo sguardo ritorna vitreo e sembra non mettere a fuoco nulla di quanto lo circonda mentre il suo proprietario percorre la banchina della linea 12 assieme a dozzine d’altre persone d’ogni razza, età, colore.
Sono le 8 di sera, ora di punta, e i convogli s’inseguono nei tunnel a ritmo incalzante, uno ogni 45 secondi. Accanto a noi sfilano infinite mattonelle bianche, su ognuna una lettera dell’alfabeto. Tutte insieme, 44mila, riproducono il testo della Dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata nel 1789. Niente punteggiatura, nessuno spazio, come in un immenso puzzle che l’uomo non mostra di notare affatto mentre occupa un’estremità della lunga panca in legno naturale. Poco oltre, su di un’altra identica, dorme un clochard, invisibile nel bozzolo grigio del sacco a pelo, incurante della luce bianchissima che piove su di lui dal soffitto.
Passano veloci quattro ragazzine. Identiche in tutto, dai lunghi capelli biondi ai jeans elasticizzati alle scarpette in gomma con i lacci allentati, sembrano cloni della stessa creatura ma per un attimo portano una scarica di vitalità in un mondo catatonico. Superano tutti gli altri senza vederli e gli auricolari dello smartphone le isolano dall’ambiente circostante. Dirigono verso l’estremità della banchina da dove avranno forse migliori possibilità di trovare da sedere nell’ultima carrozza, a volte la meno presa d’assalto.
Una lunga folata d’aria che sa di polvere bruciata, plastica e ruggine. Arriva il treno. Come se il suonare suadente di un piffero magico avesse accompagnato l’aria spinta nel tunnel dal treno, le persone in attesa tornano in vita accalcandosi nei pressi delle porte che stanno per spalancarsi. Spesso chi sale non attende l’uscita di chi scende. I due flussi rallentano, sembrano esitare poi riprendono. A carrozza affollata i più veloci guadagnano le poche poltroncine vuote; quelli più lenti e i turisti imbranati restano a bocca asciutta. Quando il convoglio riparte brusco, annaspano in cerca di un sostegno, si guardano intorno ma non perdono d’occhio lo schema delle fermate, in alto sulla porta scorrevole. Gli habitué, invece, i locali, non si curano di nulla; perduti nei loro pensieri, non importa se in piedi o seduti, ondeggiano lenti nel dondolìo ipnotico del treno, gli occhi socchiusi, in attesa del momento di scendere.
Tra una fermata e la successiva capita che la carrozza divenga per qualche istante un palcoscenico, quando un musicista sale a bordo esibendosi con amplificatore e base musicale o con uno strumento per poi allungare una mano chiedendo una moneta. Non insiste, non pretende, chiede a voce bassa così che senta soltanto chi vuol sentire. Non la musica né il canto hanno scosso l’apparente stato comatoso dei presenti ma offrono l’occasione ai turisti di alzare la fotocamera per un’immagine-ricordo. A seconda dell’età, lo sguardo dei viaggiatori può essere perso nel vuoto, affondato sempre sulla stessa pagina di un quotidiano o puntato sul display del cellulare mentre le dita volano su tasti e touchscreen. In ogni caso, sembrano tutti a mille chilometri l’uno dall’altro mentre li osservo e con nonchalance aziono non visto la fotocamera appesa al collo.
Si noterà che le immagini, tutte in bianco-nero, presentano un viraggio particolare, che definirei “petrolio”. Con esso ho cercato di rendere, o meglio interpretare l’atmosfera vagamente disumanizzante (da società post-atomica) di quel vasto mondo sotterraneo, la luce fredda che spesse volte pervade le stazioni delle sotterranee, specie quelle datate, e le stesse carrozze, nel contempo enfatizzando il senso d’isolamento che si percepisce fra le persone, sia in attesa sulle banchine che all’interno dei convogli.
Sarò grato per ogni considerazione, commento o critica vorrete esprimere, in tal modo consentendomi di ri-vedere le mie foto con occhi diversi, i vostri, e di ri-considerarle da altre, nuove prospettive. Grazie.
Bologna, sabato 16 maggio 2015
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