Ricordo di Carla Ippoliti
Un giorno di diversi anni fa (forse nel 2008) mi arrivò una telefonata... "Sono Carla, ho avuto il tuo contatto da un amico comune, ho bisogno di vedere come si lavora con Photoshop per portare avanti un progetto fotografico che ho in mente. Vorrei elaborare alcune immagini con una tecnica similare alla tua".
Poche parole, dirette, concise, come era solita fare Carla. Era così, non esistevano mezzi termini e non tollerava le mezze misure, diretta e con le idee ben chiare per raggiungere il suo obiettivo.
Voleva imparare a usare, quel minimo indispensabile, un programma di fotoritocco senza dover affrontare un corso impegnativo che l'avrebbe distratta e le avrebbe fatto perdere tempo.
Non sapeva ancora della malattia e viveva in un suo mondo il cui centro era la sua abitazione/rifugio, arredata in stile liberty e con un parco ove 7 cani 3 gatti e un coniglio vivevano in simbiosi, in una dimensione fiabesca, un mondo da "Alice nel paese delle meraviglie" ove ogni cosa aveva un senso e richiamava un ricordo.
Il tempo era la sua croce, non bastava mai, era interessata non all'aspetto tecnico, voleva comprendere quale alchimia arcana nascondessero i colori mischiandoli e alterandoli fino a rappresentare questo suo mondo.
Dopo diversi tentativi aveva raggiunto quanto si era proposta, non cambiava il suo progetto durante il suo apprendimento tanto che a un certo punto, dopo qualche anno di sperimentazione, con i risultati che potete vedere sul suo spazio, le chiesi se voleva fare una mostra dei suoi lavori.
Carla era sempre sorridente e positiva ma questa richiesta la adombrò e per qualche minuto non parlò, ero convinto che stesse valutando la mia proposta invece, mi rispose che lei aveva delle occasioni per far conoscere i miei lavori.
Rimasi perplesso, e avvertendo i miei dubbi, senza lasciarmi possibilità di replica, aggiunse: "Io fotografo per me, voglio conservare memoria del mio mondo e, in quanto tale, è qualcosa che appartiene a me e alle poche persone alle quali accetto di mostrarlo, perché così ho la possibilità di farlo capire. Cosa penserebbe di me uno sconosciuto che vede delle immagini senza conoscere quali sofferenze si nascondono dietro una rappresentazione di qualcosa che gli altri percepiscono in modo diverso?".
Carla era una psicologa clinica e poco prima di scoprire cosa le avrebbe serbato il futuro, lavorava nel reparto dei pazienti con gravi disturbi alimentari e collaborava col reparto dei malati terminali.
Dopo, un correre dietro al tempo che già era poco, la fotografia era diventata lo specchio del suo malessere e si rifletteva negli autoritratti malinconici quasi a commiato della sua esistenza. Non elaborava più le foto, le bastava scattarle e immaginarle, non le scaricava nemmeno, la fotografia era diventata il momento dello scatto, un'idealizzazione di qualche cosa che doveva rimanere esclusivo..."
(testo di Blve)
Poche parole, dirette, concise, come era solita fare Carla. Era così, non esistevano mezzi termini e non tollerava le mezze misure, diretta e con le idee ben chiare per raggiungere il suo obiettivo.
Voleva imparare a usare, quel minimo indispensabile, un programma di fotoritocco senza dover affrontare un corso impegnativo che l'avrebbe distratta e le avrebbe fatto perdere tempo.
Non sapeva ancora della malattia e viveva in un suo mondo il cui centro era la sua abitazione/rifugio, arredata in stile liberty e con un parco ove 7 cani 3 gatti e un coniglio vivevano in simbiosi, in una dimensione fiabesca, un mondo da "Alice nel paese delle meraviglie" ove ogni cosa aveva un senso e richiamava un ricordo.
Il tempo era la sua croce, non bastava mai, era interessata non all'aspetto tecnico, voleva comprendere quale alchimia arcana nascondessero i colori mischiandoli e alterandoli fino a rappresentare questo suo mondo.
Dopo diversi tentativi aveva raggiunto quanto si era proposta, non cambiava il suo progetto durante il suo apprendimento tanto che a un certo punto, dopo qualche anno di sperimentazione, con i risultati che potete vedere sul suo spazio, le chiesi se voleva fare una mostra dei suoi lavori.
Carla era sempre sorridente e positiva ma questa richiesta la adombrò e per qualche minuto non parlò, ero convinto che stesse valutando la mia proposta invece, mi rispose che lei aveva delle occasioni per far conoscere i miei lavori.
Rimasi perplesso, e avvertendo i miei dubbi, senza lasciarmi possibilità di replica, aggiunse: "Io fotografo per me, voglio conservare memoria del mio mondo e, in quanto tale, è qualcosa che appartiene a me e alle poche persone alle quali accetto di mostrarlo, perché così ho la possibilità di farlo capire. Cosa penserebbe di me uno sconosciuto che vede delle immagini senza conoscere quali sofferenze si nascondono dietro una rappresentazione di qualcosa che gli altri percepiscono in modo diverso?".
Carla era una psicologa clinica e poco prima di scoprire cosa le avrebbe serbato il futuro, lavorava nel reparto dei pazienti con gravi disturbi alimentari e collaborava col reparto dei malati terminali.
Dopo, un correre dietro al tempo che già era poco, la fotografia era diventata lo specchio del suo malessere e si rifletteva negli autoritratti malinconici quasi a commiato della sua esistenza. Non elaborava più le foto, le bastava scattarle e immaginarle, non le scaricava nemmeno, la fotografia era diventata il momento dello scatto, un'idealizzazione di qualche cosa che doveva rimanere esclusivo..."
(testo di Blve)
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