10. Ottobre: Massimo Camocardi
Preferisco il Bianco & Nero al colore, preferisco le persone alle cose, preferisco gli animali alle persone (fotograficamente parlando, n.d.r.).
Ho cominciato a fotografare molti anni fa, ero un ragazzo.
Mi regalarono una biottica sovietica (Lubitel 2) nel 1975, uno spasso, ma anche un lusso: le stampe costavano troppo e mi ritrovavo spesso a scattare senza pellicola solo per il gusto di sentire il click dell'otturatore. Collezionavo i fascicoli de "I Grandi Fotografi" della Fabbri Ed.
Ho imparato ad inquadrare e a focheggiare, a scegliere cosa sì e cosa no.
Forse perché vedevo meglio attraverso un grandangolo o forse perché la realtà così com'era non mi andava, sta di fatto che il mondo lo ritagliavo; questo era per me fotografare.
Ritagliare la realtà imponendole un limite significava far sorgere un rapporto, un contrasto e quindi un senso al mio vacuo armeggiare con la fotocamera e i fascicoli della Fabbri.
Ancora oggi sono convinto che in Fotografia ciò che conta non siano le fotocamere né le lenti, ma le forbici.
Con i primi stipendi negli anni Ottanta arrivarono le prime reflex (una Canon FTb usata e una Canon A1), un ingranditore cecoslovacco, carte scadute Agfa cedute a metà prezzo, teli neri sulla finestra del bagno. Ho imparato a stampare. Tempo e soldi buttati, le foto finivano in un cassetto, ingiallivano perché mal risciacquate dal bagno di fissaggio, ed io intristivo.
Poi è arrivato il digitale e il web: tutto più semplice, immediato, forse un po' più artefatto; ma quella scala di grigi, tanto ricercata nella stampa artigianale e mai trovata, ora c'è. Meno fatica, meno soldi, più scatti con cui potersi esercitare. Più occhi che vedono e le foto in rete non ingialliscono.
Ho messo in mostra le mie fotografie solo una volta, in una splendida chiesa cinquecentesca nella pianura pavese, insieme al grande amico e fotografo Enrico Doria .
Le mie foto erano appese alla parete di destra, quelle di Enrico a sinistra.
La gente entrava, una rapida occhiata d'insieme e poi andava a sinistra.
Non esporrò mai più.
Massimo Camocardi
Ho cominciato a fotografare molti anni fa, ero un ragazzo.
Mi regalarono una biottica sovietica (Lubitel 2) nel 1975, uno spasso, ma anche un lusso: le stampe costavano troppo e mi ritrovavo spesso a scattare senza pellicola solo per il gusto di sentire il click dell'otturatore. Collezionavo i fascicoli de "I Grandi Fotografi" della Fabbri Ed.
Ho imparato ad inquadrare e a focheggiare, a scegliere cosa sì e cosa no.
Forse perché vedevo meglio attraverso un grandangolo o forse perché la realtà così com'era non mi andava, sta di fatto che il mondo lo ritagliavo; questo era per me fotografare.
Ritagliare la realtà imponendole un limite significava far sorgere un rapporto, un contrasto e quindi un senso al mio vacuo armeggiare con la fotocamera e i fascicoli della Fabbri.
Ancora oggi sono convinto che in Fotografia ciò che conta non siano le fotocamere né le lenti, ma le forbici.
Con i primi stipendi negli anni Ottanta arrivarono le prime reflex (una Canon FTb usata e una Canon A1), un ingranditore cecoslovacco, carte scadute Agfa cedute a metà prezzo, teli neri sulla finestra del bagno. Ho imparato a stampare. Tempo e soldi buttati, le foto finivano in un cassetto, ingiallivano perché mal risciacquate dal bagno di fissaggio, ed io intristivo.
Poi è arrivato il digitale e il web: tutto più semplice, immediato, forse un po' più artefatto; ma quella scala di grigi, tanto ricercata nella stampa artigianale e mai trovata, ora c'è. Meno fatica, meno soldi, più scatti con cui potersi esercitare. Più occhi che vedono e le foto in rete non ingialliscono.
Ho messo in mostra le mie fotografie solo una volta, in una splendida chiesa cinquecentesca nella pianura pavese, insieme al grande amico e fotografo Enrico Doria .
Le mie foto erano appese alla parete di destra, quelle di Enrico a sinistra.
La gente entrava, una rapida occhiata d'insieme e poi andava a sinistra.
Non esporrò mai più.
Massimo Camocardi
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