31. Settembre: A. Pettazzoni
Cominciò così la mia storia di fotografo.
Ero un ragazzino con pantaloni corti e le ginocchia sbucciate, correva il '58 e in paese esistevano ancora tracce della guerra, case semidiroccate, devastate dai bombardamenti con macerie accantonate in attesa di essere rimosse.
Mia nonna paterna mi diede una macchina fotografica kodak e un foglietto con scritti numeri incomprensibili e simboli disegnati del sole e della luna: l'aveva usata il nonno durante i festeggiamenti del compleanno di mia sorella, più vecchia di me di sette anni, raccomandandomi di consegnarla al fotografo.
Ne esisteva solamente uno in paese, possedeva uno studio a pochi passi da casa mia in una via parallela rinominata da noi ragazzini “via cretini”, precisando che sarebbe passata lei a pagare il noleggio della macchina e le fotografie in essa contenute.
Strinsi la scatola nera con le due mani e di corsa giunsi davanti alla porta dello studio del fotografo: Santino Salardi.
Bussai e dalla finestrella centrale vidi parzialmente il suo volto. Aprì il portoncino dello studio e allungai a due mani la scatola nera sillabando attentamente le parole dette dalla nonna.
Alto, canuto, i capelli toccavano le spalle, uno sguardo penetrante incuteva timore, prese l'oggetto e mi disse che se aspettavo pazientemente mi avrebbe dato le fotografie. “Un'oretta e vai a casa con le foto”, disse, “la scuola è chiusa e dalla tua faccetta noto che una gran voglia di studiare non l'hai”.
Ecco! In quell'ora mi entrò il primo tarlo, girai per lo studio per una mezz'ora osservando le foto appese: ritratti, scorci urbani, un incidente documentato come scoop, rappresentava un autocarro finito nel canale (una rarità nel cinquanta), il suo recupero fatto con argani, travi, funi e forza di braccia, in sequenza come un piccolo film.
“Sei ancora lì?”. Il suo volto spuntò da una tenda nera: “Ormai ho finito". "Posso entrare?”, dissi.
Quel sì fu l'innesto del secondo tarlo: il primo la curiosità della fotografia, il secondo vederla nascere.
La penombra mi incuteva paura, sentii la sua mano sulla mia testa, il palmo immerso tra i capelli stringeva il cranio indirizzandomi verso un banco nero. Lo intravedevo. Salii su uno sgabello e sul piano di esso vidi due enormi vasche bianche. Si accese una luce rossastra e dopo qualche minuto tutto fu più chiaro. In piedi, fermo, quasi impietrito, mi accorsi che non respiravo.
“E ora cosa fai?”, chiesi incuriosito.
“Ti faccio vedere il faccione di tua sorella uscire da un foglio di carta bianca".
“Ma va là!!!", risposi.
Armeggiò sotto il banco ed estrasse un foglio di carta grande come un quaderno, bianco, anzi rossastro, ma su esso non vi era impresso nulla.
Si accese una luce per qualche secondo poi si spense, immerse rapidamente quel foglio in una vasca con un liquido incolore.
“Vieni più vicino, di più“, disse, “stai attento che tra poco comincerai a vedere il faccione di tua sorella”, agitava quel liquido e il foglio correva dentro alla vasca da destra a sinistra, bianco. Poi lentamente apparvero striature sempre più nere fino a definire quel viso, a volte odiato e a volte amato, di mia sorella.
Si accese la luce e finalmente vidi chiaramente dove mi trovavo: un ambiente che mi parve fiabesco, cose mai viste prima, era una stanza ricolma in ogni angolo di fotografie, sulle pareti, appese al soffitto.
Asciugò l'ultima fotografia con la smaltatrice e mi diede il pacchetto di fotografie.
“Di' alla nonna di venire quando vuole, io sono sempre qui".
Quell'esperienza rimase dentro di me, nonostante i quindici anni poi trascorsi come adolescente e come ragazzo. Terminato il militare, quei tarli rimasti in letargo si svegliarono e cominciò quel cammino che anche oggi testardamente porto avanti, fino a quando la luce dei miei occhi si spegnerà.
Venni in possesso di quella macchina a soffietto 6x9 kodak, la posseggo anche oggi insieme a tutte quelle che ho usato.
Santino se ne andò in silenzio, solo ora a distanza di anni il paese si è reso conto della preziosità del suo lavoro, documenti fotografici di estremo valore, un archivio infinito riconosciuto oggi da tutta la comunità.
Come se mi avesse lasciato simbolicamente un testimone, cominciai il percorso analogo al suo, tralasciando l'aspetto economico e inquinante per la creatività: fotografavo quello che volevo io e non quello che commissionavano gli altri, il pane quotidiano entrava da un'altra attività in quel periodo. Fotografavo giornalmente, la macchina fotografica era sempre con me anche durante il lavoro di agente di commercio e la notte stampavo le fotografie in una piccola camera oscura rubata all'interno dell'appartamento.
Il negativo mi entrò nel circolo sanguigno, scorreva insieme ai globuli rossi giorno e notte, al fianco di esso vi erano rivelatori per carta sensibile, per negativo, ogni tipo di carta, ogni marca, sconfinando oltreoceano con nomi ed etichette che non ricordo più e poi fissaggi, viraggi, inversioni, tecniche di stampa, tecniche di mascheratura…
Leggevo e mettevo in pratica, quasi sempre non coincideva la teoria che avevo letto, vi erano deviazioni, intralci e qualche bugia del narratore, ma poi ritrovavo la via giusta per una stampa decente. Decisi infine di smettere con le prove e scelsi il materiale che avrei usato una volta per tutte, tanto da avere la certezza matematica della riuscita, sia che fosse negativo o carta sensibile.
La notte, non tutte le notti - avevo anche una moglie e una bambina -, mi chiudevo in quell'angusto posto isolato dal mondo.
Poche ore prima ero immerso nel caos, clienti con problemi commerciali, lamentele di ogni genere, sopportavo tutto per guadagnarmi il pane... e poi!
Poi, mi aspettava quel buio schiarito da una luce rossastra, il silenzio amplificava il desiderio di vedere quello che poche ore prima avevo fermato, immaginavo le foto stampate mentre attentamente sviluppavo il negativo. Terminato il lavaggio accendevo la luce e osservavo la striscia per la prima analisi, tutte esposte bene. Bene!!!
Siamo giunti all'inizio degli anni ottanta.
La mia storia di fotografo dilettante cambiò un pomeriggio d'estate, mi trovavo dentro alla biblioteca comunale cercando un volume del grande Berengo Gardin, e mi capitò per caso un vecchio album con fotografie a contatto riguardanti il mio paese, scorci delle vie, piazze… Le più antiche risalivano al 1870. Chiesi alla bibliotecaria se potevo riprodurle e mi fu concessa la possibilità, a patto che una copia la donassi al comune come pagamento della concessione. Accettai e ne scelsi un centinaio, quasi tutte. Mentre le riproducevo con lo stativo maturò l'idea di rifare lo stesso percorso cent'anni dopo, nella stessa posizione con la stessa inquadratura: sarebbe interessante vedere il cambiamento, pensavo mentre le riproducevo. Quando infine all'ultimo scatto l'idea era ormai cementata, ero deciso a portare a termine quel percorso.
Il lavoro durò quattro anni, entrai nelle case di un centinaio di famiglie con difficoltà che non elenco. Dovetti avvalermi di mia madre come passepartout: era conosciutissima, il figlio, che ero io, molto meno.
Terminato l'immenso lavoro portai l'album confezionato artigianalmente da me al direttore della biblioteca. Scaturì quindi l'idea di una mostra che ebbe un successo incredibile, il paese intero la visitò e fu tanto rilevante che il "Resto del Carlino" mi dedicò una pagina che ancora oggi conservo sotto vetro nel mio studio.
Cominciò una collaborazione con Maurizio Garuti, che dura anche oggi, un sodalizio che mi permise di pubblicare svariati libri, cataloghi, manifesti.
Oggi, nel 2011, sono ancora qui a stampare fotografie con la stessa passione, rifiutando il digitale per orgoglio personale, testardaggine forse, qualcuno direbbe magari che sono antiquato nella mia fermezza. Ma è la determinazione nelle mie scelte che mi ha portato a perfezionare il meccanismo dello sviluppo, a non lasciare andare la mia camera oscura. Ho passato una vita intera a cercare la giusta sequenza di componenti, per avere l'espressione materiale di quello che vedo.
E, senza nulla togliere alla comodità del digitale, che ha donato la bellezza della fotografia a tutti, e infinite possibilità di rendere un'immagine con una fisicità non naturale, rimango dell'idea che l'arte sia nella manualità di chi la crea.
Ero un ragazzino con pantaloni corti e le ginocchia sbucciate, correva il '58 e in paese esistevano ancora tracce della guerra, case semidiroccate, devastate dai bombardamenti con macerie accantonate in attesa di essere rimosse.
Mia nonna paterna mi diede una macchina fotografica kodak e un foglietto con scritti numeri incomprensibili e simboli disegnati del sole e della luna: l'aveva usata il nonno durante i festeggiamenti del compleanno di mia sorella, più vecchia di me di sette anni, raccomandandomi di consegnarla al fotografo.
Ne esisteva solamente uno in paese, possedeva uno studio a pochi passi da casa mia in una via parallela rinominata da noi ragazzini “via cretini”, precisando che sarebbe passata lei a pagare il noleggio della macchina e le fotografie in essa contenute.
Strinsi la scatola nera con le due mani e di corsa giunsi davanti alla porta dello studio del fotografo: Santino Salardi.
Bussai e dalla finestrella centrale vidi parzialmente il suo volto. Aprì il portoncino dello studio e allungai a due mani la scatola nera sillabando attentamente le parole dette dalla nonna.
Alto, canuto, i capelli toccavano le spalle, uno sguardo penetrante incuteva timore, prese l'oggetto e mi disse che se aspettavo pazientemente mi avrebbe dato le fotografie. “Un'oretta e vai a casa con le foto”, disse, “la scuola è chiusa e dalla tua faccetta noto che una gran voglia di studiare non l'hai”.
Ecco! In quell'ora mi entrò il primo tarlo, girai per lo studio per una mezz'ora osservando le foto appese: ritratti, scorci urbani, un incidente documentato come scoop, rappresentava un autocarro finito nel canale (una rarità nel cinquanta), il suo recupero fatto con argani, travi, funi e forza di braccia, in sequenza come un piccolo film.
“Sei ancora lì?”. Il suo volto spuntò da una tenda nera: “Ormai ho finito". "Posso entrare?”, dissi.
Quel sì fu l'innesto del secondo tarlo: il primo la curiosità della fotografia, il secondo vederla nascere.
La penombra mi incuteva paura, sentii la sua mano sulla mia testa, il palmo immerso tra i capelli stringeva il cranio indirizzandomi verso un banco nero. Lo intravedevo. Salii su uno sgabello e sul piano di esso vidi due enormi vasche bianche. Si accese una luce rossastra e dopo qualche minuto tutto fu più chiaro. In piedi, fermo, quasi impietrito, mi accorsi che non respiravo.
“E ora cosa fai?”, chiesi incuriosito.
“Ti faccio vedere il faccione di tua sorella uscire da un foglio di carta bianca".
“Ma va là!!!", risposi.
Armeggiò sotto il banco ed estrasse un foglio di carta grande come un quaderno, bianco, anzi rossastro, ma su esso non vi era impresso nulla.
Si accese una luce per qualche secondo poi si spense, immerse rapidamente quel foglio in una vasca con un liquido incolore.
“Vieni più vicino, di più“, disse, “stai attento che tra poco comincerai a vedere il faccione di tua sorella”, agitava quel liquido e il foglio correva dentro alla vasca da destra a sinistra, bianco. Poi lentamente apparvero striature sempre più nere fino a definire quel viso, a volte odiato e a volte amato, di mia sorella.
Si accese la luce e finalmente vidi chiaramente dove mi trovavo: un ambiente che mi parve fiabesco, cose mai viste prima, era una stanza ricolma in ogni angolo di fotografie, sulle pareti, appese al soffitto.
Asciugò l'ultima fotografia con la smaltatrice e mi diede il pacchetto di fotografie.
“Di' alla nonna di venire quando vuole, io sono sempre qui".
Quell'esperienza rimase dentro di me, nonostante i quindici anni poi trascorsi come adolescente e come ragazzo. Terminato il militare, quei tarli rimasti in letargo si svegliarono e cominciò quel cammino che anche oggi testardamente porto avanti, fino a quando la luce dei miei occhi si spegnerà.
Venni in possesso di quella macchina a soffietto 6x9 kodak, la posseggo anche oggi insieme a tutte quelle che ho usato.
Santino se ne andò in silenzio, solo ora a distanza di anni il paese si è reso conto della preziosità del suo lavoro, documenti fotografici di estremo valore, un archivio infinito riconosciuto oggi da tutta la comunità.
Come se mi avesse lasciato simbolicamente un testimone, cominciai il percorso analogo al suo, tralasciando l'aspetto economico e inquinante per la creatività: fotografavo quello che volevo io e non quello che commissionavano gli altri, il pane quotidiano entrava da un'altra attività in quel periodo. Fotografavo giornalmente, la macchina fotografica era sempre con me anche durante il lavoro di agente di commercio e la notte stampavo le fotografie in una piccola camera oscura rubata all'interno dell'appartamento.
Il negativo mi entrò nel circolo sanguigno, scorreva insieme ai globuli rossi giorno e notte, al fianco di esso vi erano rivelatori per carta sensibile, per negativo, ogni tipo di carta, ogni marca, sconfinando oltreoceano con nomi ed etichette che non ricordo più e poi fissaggi, viraggi, inversioni, tecniche di stampa, tecniche di mascheratura…
Leggevo e mettevo in pratica, quasi sempre non coincideva la teoria che avevo letto, vi erano deviazioni, intralci e qualche bugia del narratore, ma poi ritrovavo la via giusta per una stampa decente. Decisi infine di smettere con le prove e scelsi il materiale che avrei usato una volta per tutte, tanto da avere la certezza matematica della riuscita, sia che fosse negativo o carta sensibile.
La notte, non tutte le notti - avevo anche una moglie e una bambina -, mi chiudevo in quell'angusto posto isolato dal mondo.
Poche ore prima ero immerso nel caos, clienti con problemi commerciali, lamentele di ogni genere, sopportavo tutto per guadagnarmi il pane... e poi!
Poi, mi aspettava quel buio schiarito da una luce rossastra, il silenzio amplificava il desiderio di vedere quello che poche ore prima avevo fermato, immaginavo le foto stampate mentre attentamente sviluppavo il negativo. Terminato il lavaggio accendevo la luce e osservavo la striscia per la prima analisi, tutte esposte bene. Bene!!!
Siamo giunti all'inizio degli anni ottanta.
La mia storia di fotografo dilettante cambiò un pomeriggio d'estate, mi trovavo dentro alla biblioteca comunale cercando un volume del grande Berengo Gardin, e mi capitò per caso un vecchio album con fotografie a contatto riguardanti il mio paese, scorci delle vie, piazze… Le più antiche risalivano al 1870. Chiesi alla bibliotecaria se potevo riprodurle e mi fu concessa la possibilità, a patto che una copia la donassi al comune come pagamento della concessione. Accettai e ne scelsi un centinaio, quasi tutte. Mentre le riproducevo con lo stativo maturò l'idea di rifare lo stesso percorso cent'anni dopo, nella stessa posizione con la stessa inquadratura: sarebbe interessante vedere il cambiamento, pensavo mentre le riproducevo. Quando infine all'ultimo scatto l'idea era ormai cementata, ero deciso a portare a termine quel percorso.
Il lavoro durò quattro anni, entrai nelle case di un centinaio di famiglie con difficoltà che non elenco. Dovetti avvalermi di mia madre come passepartout: era conosciutissima, il figlio, che ero io, molto meno.
Terminato l'immenso lavoro portai l'album confezionato artigianalmente da me al direttore della biblioteca. Scaturì quindi l'idea di una mostra che ebbe un successo incredibile, il paese intero la visitò e fu tanto rilevante che il "Resto del Carlino" mi dedicò una pagina che ancora oggi conservo sotto vetro nel mio studio.
Cominciò una collaborazione con Maurizio Garuti, che dura anche oggi, un sodalizio che mi permise di pubblicare svariati libri, cataloghi, manifesti.
Oggi, nel 2011, sono ancora qui a stampare fotografie con la stessa passione, rifiutando il digitale per orgoglio personale, testardaggine forse, qualcuno direbbe magari che sono antiquato nella mia fermezza. Ma è la determinazione nelle mie scelte che mi ha portato a perfezionare il meccanismo dello sviluppo, a non lasciare andare la mia camera oscura. Ho passato una vita intera a cercare la giusta sequenza di componenti, per avere l'espressione materiale di quello che vedo.
E, senza nulla togliere alla comodità del digitale, che ha donato la bellezza della fotografia a tutti, e infinite possibilità di rendere un'immagine con una fisicità non naturale, rimango dell'idea che l'arte sia nella manualità di chi la crea.
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