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Ritratto dissonante #1

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Ritratto dissonante #1

Ivan
che sogna di essere italiano

Commenti 14

  • Mariana Magnani 04/01/2011 16:20

    L’enciclopedia della valigia è un interminabile elenco di modelli e materiali che raccontano popoli, abitudini e culture.
    C’è la sacca del pellegrino: sobrietà e rinuncia al superfluo; l’esatto contrario della valigia del turista moderno, accessoriata con le ruote ed il lucchetto.
    Massima razionalizzazione dello spazio è nella 24 ore del business man: nera, sobria ed elegante.
    Ma è stata la valigia di cartone la prima a fare la storia (degli italiani).
    I "migranti" (ad litteram): sono loro a fare le nazioni e i destini; il vecchio si intreccia con il nuovo; il conosciuto si sposa con l’ignoto.
    La storia delle tante migrazioni del popolo italiano ce lo insegna. Straordinario fu l’esodo successivo all’unificazione del Paese.
    Il fenomeno va assumendo dimensioni notevoli che richiedono, ai primi del Novecento, l’istituzione di un Commissariato Generale delle emigrazioni, con lo scopo di regolare i flussi e tutelare gli emigranti da eventuali soprusi.

    Mamma mia dammi cento lire!

    Dagli emigranti narrati agli emigrati narranti.
    De Amicis, Carlo Levi, Strati, Sciascia e Rigoni Stern hanno raccontato la realtà dell'emigrazione italiana in Argentina negli anni ottanta dell'Ottocento (Sull'Oceano); l'emigrazione veneta nei territori della monarchia austro-ungarica prima della 'grande guerra' (Storia di Tönle); l'emigrazione lucana negli Usa in epoca fascista (Cristo si è fermato a Eboli); l'emigrazione calabrese nel secondo postbellico in Svizzera (Gianni Palaia di Messina e Noi lazzaroni) ed in Germania (Non tutto ciò che luce è oro); la coeva emigrazione siciliana negli Usa (Il lungo viaggio), in Germania ed in Svizzera (L'esame).
    Nuclei sradicati e viaggi estenuanti in un brusio di voci: l'emigrazione è dolorosa.
    Ma è stata ed è per molti la sola possibilità di sopravvivenza.
    L'esule tra gli esuli è Dante.
    Multiforme anelito di tristezza aleggia e fluisce nei versi che furono rifugio; Dante letterato e non legislatore suggella la sua disgrazia politica e la sua grandezza poetica: silenzioso si staglia l’esilio. Nostalgico e rabbioso si dipana nelle cantiche, nelle profezie, in quel “tu saprai quanto quell’ arte pesa” o nel laconico accenno “che cotesta cortese oppinione ti fia chiavata in mezzo de la testa con maggior chiave che l’altrui sermone” ancora più incisiva nel tono ipotetico, che ne accenna solo un labile confine in cui Dante pone il suo postumo ringraziamento per l’ospitalità ricevuta. Ospitalità che mai gli mancò, ma che neppure riuscì mai ad alleviare quella sofferenza tutta personale che trapela in fine nel Paradiso, come ricordo delle profezie udite in viaggio, nelle “parole gravi”, uno sfogo celato forte e pudico nella sua descrizione, uno spiraglio di dolore subito richiamato nell’arida figura geometrica a cui il poeta si assimila, un forte tetragono, così la sua virtù come corazza a cui si richiama e si aggrappa.

    Sublimata allegoria dell’umanità e personalissimo dramma biografico, l’esilio si svela nell’ultimo dei canti di Cacciaguida in una parentesi di intimo struggimento cui il poeta si sarebbe abbandonato ponendo un suo alter-ego nel trisavolo lasciandosi andare al ricordo e al rimpianto

    “tu lascerai ogni cosa diletta
    più caramente, e questo è quello strale
    che l’ arco dell’ esilio pria saetta.
    Tu proverai sì come sa di sale
    lo pane altrui, e com’ è duro calle
    lo scender e ‘l salir per l’ altrui scale”

    Nell’individuale ripetizione di quel “tu”di quella solitudine immensa, e nell’ossessiva ripetizione, nell’eco martellante “altrui...”, “lo pane altrui... l’altrui scale...” in cui visibilmente ci appare l’epico sforzo che il poeta dovette compiere trascinando sempre l’umiliazione che gli gravava in ogni passo in quelle case “altrui”, in ogni chiedere “lo pane”, in quella sottomissione mortificante degli atti più quotidiani che volle porre ad emblema di ogni esule; così anche Romeo “mendicando sua vita a fusto a fusto” è “persona umile e peregrino” e nella malinconica fierezza di quest’ anima, che splendente viene chiamata con nitida forza per due volte da Giustiniano, Dante pone il suo cuore di esule incolpevole ed è nella fugacità di questo personaggio che arriva e torna nell’ombra che si compie la sua grandezza. Così come basta un verso “ricordati di me che son la Pia” lapidario e dolcissimo a rievocare con velata malinconia in un’ aura di mistero il personaggio di Pia dei Tolomei, che fluisce sulla scena in una voce, quasi nascondesse un recondito senso nel suo nome sospirato e sommesso che sembra vivere nella fantasia del pota, nel mistero della leggenda che l’avvolge; così leggendaria è la lettura del personaggio di Romeo che suggella la sua universalità nell’ aggettivo di “giusto” e si eleva ancora maggiore nel suo disinteresse e in quella sofferenza di “povero e vetusto” che lo incorona a paradigma di tutti i giusti vittime di quella società decaduta contro cui si scaglia l’invettiva politica di Dante.

    Costantemente riproposta come motivazione della sofferenza d’esilio del poeta, ed emblema del degrado verso cui l’egoismo del singolo ha condotto l’umanità, lentamente si staglia sullo sfondo della Commedia Firenze.

    Firenze, rimpianta da Farinata, Visconti, Malaspina, Cavalcanti... rimpianta da Dante, che in primissimo luogo fiorentino, la porta sempre nel suo cuore.

    Firenze, drasticamente rifiutata dal poeta nell’anafora del cantoXV, nei nove “non” che ne scandiscono le differenze con il passato a cui guarda nostalgico; il passato di cui parla Cacciaguida, quello in cui non erano ancora arrivate “la gente nova e i subiti guadagni”, la classe mercantile che con l’inurbamento delle città ne aveva trasformato l’economia, e inevitabilmente i costumi, palesi nelle “sfacciate donne fiorentine” appariscenti e truccate, che non corrispondevano più alla “pudica” e “sobria” Firenze d’un tempo. Così la lupa si muove nei nuovi confini, ben al di là de “le mura antiche” oltre le quali si è ormai ampliata Firenze; ed emissaria di quel dio pagano soppiantato dai costumi cristiani e dal neonato patrono S. Giovanni Battista, l’invidia, sotto le mentite spoglie della nobile gara, spinge quella competizione, la faziosità e l’irrimediabile disgregazione, che secondo l’opinione dei vecchi fiorentini e di Dante, eredi della leggenda, fu il frutto della vendetta di Marte, anticamente venerato nella città e che “sempre con l’arte sua la farà trista”.

    Così contro la guerra “di Marte” Dante invoca la solidarietà e il perdono quali uniche possibilità di pace e “viver di cittadini”, e l’attualità del suo messaggio ci sconcerta.

    Rinnegata la città-stato Dante propone il tema dell’Impero, e mentre l’aquila, simbolo di Roma e della volontà di Dio, col suo battito scandisce la rassegna di nomi ed eventi universalmente noti, lui espone la sua teoria.

    Visione cosmopolita che secondo alcuni fu l’espressione massima di quella cultura, e di quello spirito universale che solo il comune pensiero astratto del mondo medievale ancora ignaro delle disgregazioni nazionalistiche che sarebbero cominciate non molto dopo il tempo di Dante, per culminare nei trattati di Versailles, poteva realizzare; in realtà la visione di Dante fu in modo ambivalente opposta a questa interpretazione. Da un lato infatti l’intera Commedia fu promotrice di un’Italia nazionale, nella coscienza morale e nell’unità linguistica che riuscì a costituire; ma anche in un’analisi meno lungimirante e postuma, seppure fu nell’esilio che Dante maturò la concezione dell’ Impero, essa non fu per lui che un velo col quale proteggere Firenze e la sua dignità di esule.

    Se l’ Impero fu l’ aspirazione, Firenze fu sempre l’ utopia che egli collocò sia in un passato che in un futuro indeterminati ed irreali.

    Così se in ultima analisi la storia di Firenze “perfida noverca” si assimila a colui che ne fu l’ ultimo rappresentante di parte Bianca, e verso cui Dante riversò con sdegno la colpa del suo esilio, nei versi con cui volle sottolineare la perfida volontà tesa al male “si vuole... si cerca...” con concisa durezza lascia sprofondare Bonifazio e riscatta la sua figura di exul immeritus, quale egli stesso si definì, così opponendo la sua figura a quella del pontefice è come se nel Paradiso rendesse visibile davanti al mondo il sopruso di cui fu vittima e riscattasse finalmente se stesso.

    “Qual si partì Ippolito da Atene
    per la spietata e perfida novera
    tal di Fiorenza partir ti conviene.
    Questo si vuole, questo si cerca
    e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
    là dove Cristo tutto il dì si merca”

    Monumentale ricompensa in cui l’esilio diviene onore, e sancisce l’eroismo del poeta, egli erige in questi versi un piedistallo mitico per se solo; eppure, inevitabile ricade sempre la scelta del finale drammatico, in cui un’ingiustizia latente accompagna un sotteso dolore.

    Così, accanto alla statuaria immagine di Ippolito si eleva quella di una giustizia, esule anch’ essa, “dolente e sbigottita”, “discacciata e stanca”; e nei versi, nelle rime, nei canti e nelle lettere, costante, unico, questo singhiozzo sommesso di dolore profondo, lacrime trattenute, nascoste fra le parole, gridate nelle denunce, oppure affidate ad immagini “altre” cui però risulta palese l’identificazione. Un tempio di dolore armonizzato in quell’ arte a cui dedicò la vita. Perennemente controllato e analizzato. Per questo non possiamo che commuoverci fatalmente quando “il nudo braccio, di dolor colonna, sente l’ arraggio che cade dal volto”, quando tutta quest’ emozione incessantemente canalizzata si scopre ed irrompe in una tempesta di lacrime che scivolano lungo il braccio oltre quella mano, margine che nasconde un volto, un’ identificazione; che va ben oltre la figura di Dante, e tocca l’intima individualità di ciascuno, in questa immagine di sconforto così familiare. Immagine che trova il suo apogeo nel supplichevole canto collettivo, nella preghiera più affettuosa e lacrimata: quella che le anime dei negligenti intonano nella valletta dei principi.

    In questo mondo mediatico, questo limbo d’ esilio dal cielo, comunitario è il tramonto che si sfuma nella nostalgia verso ciò che è assente e lontano. Apparentemente la nostalgia di Dante, volta al passato, al mare che lo separa dal mondo dei vivi, da Firenze, è opposta alla nostalgia delle anime, che è un desiderio di unione con Dio. L’una sembra volgersi al passato, l’altra protendersi al futuro. In realtà, Firenze diviene ancora una volta simbolo di quella separazione da qualcosa, dal “tutto” che rende ogni uomo esule e peregrino, alla ricerca di quell’ armonia, dell’Eden smarrito di cui non resta che una consapevolezza lontana, come un doloroso ricordo, nella sua vaga percezione.

    Su questo sfondo si alzano evanescenti le parole del poeta:
    “Era già l’ora che volge il disio
    ai naviganti e intenerisce il cuore
    lo dì ch’ han detto ai dolci amici addio”

    Qui forse più che in ogni altro verso l’esilio si è sublimato, perdendo quel suo sterile distacco, in un canto, in musica, malinconica e consolatoria, nella catarsi finale: il pianto.

    “quel pianto grande che poi riposa
    quel gran dolore che poi non duole”

    E in questo momento di stasi meditativa, compare l’animo irrimediabilmente irrequieto dell’ uomo, filosofo e pastore prostrato nel suo anelito verso l’ infinito. In quella malinconia insieme terribile e compagna. Che a volte cerca e a volte combatte.

    “Fa tanto bene ripensà a l’amore ne li momenti di malinconia: provi una specie de nun so che sia, come un piacere de sentì dolore” (Trilussa)
    E in quest’ epica battaglia, le sue lacrime d’ eroe

    Un primo piano illustra un libro di verità sentita; apre alla mente e agli occhi altrui.
    Siamo tutti viatores.
    Complimenti!
    M.
  • massimiliano scoccione 06/11/2010 3:00

    bellissima! forza del soggetto e forza dell'autore ai massimi livelli! brava!
  • laura fogazza 10/11/2009 18:03

    molto bello.....
    laura
  • Alberto Angelici 09/11/2009 11:59

    Il BN è delicato e mi piace (anche se io probabilmente l'avrei maggiormente contrastato). Trovo piacevole anche il mosso che, pur se tecnicamente rappresenta un difetto, qui non guasta la bella espressivita' del soggetto ma anzi ammorbidisce i tratti e conferisce ulteriore dolcezza al sorriso, all'espressione garbata. La luce laterale aiuta, fa la sua parte :-)
  • Martina Sandrini 02/11/2009 22:56

    Molto bella e molto espressiva... con uno sguardo e un mezzo sorriso ti ha gia' detto tutto.... che non e' italiano ma che vorrebbe esserlo. Lucy hai sempre una sensibilità eccezzionale quando scatti...
    Ciao, Marty
  • Federico Cirillo 31/10/2009 22:27

    Buena toma!
  • Franco Lecis 31/10/2009 22:26

    Un gran bel ritratto
  • Mario Ventura 31/10/2009 19:22

    Nel suo impaccio la dolcezza della semplicità.
  • Claudio Micheli 31/10/2009 16:43

    Un soggetto molto spressivo, una luce piacevole e poi il tuo B/N...mi piace!
    Ciao
  • Bodil Hegnby Larsen 31/10/2009 12:41

    Bella, ottima la luce!
    Complimenti.
    ciao
  • Marco Polticchia 31/10/2009 1:17

    ottima serie....questa è quella che preferisco...forse per il fatto che non rispetta le regole fotografiche....o solo perchè è vera...!!!
    complimenti Lucy
  • giancarlo abbati 31/10/2009 0:19

    bel ritratto ,il sogno ...io sogno di essere non italiano.tenero lui
  • Enrico Fergnani 31/10/2009 0:04

    molto bella
  • Karl R. H. 30/10/2009 23:55

    *smile* ........
    to love this human
    and a great b/w - technique

    K.

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