Mostra online Pollaci-Portaluppi "Immagini e storie" - 6. Villafrati III
Giacomino di certo non era un tipo molto sveglio. Se ben ricordate barattò la sua bella mucca per “cinque fagioli fortunati”.
«Cinque fagioli per una mucca! - tuonò la madre - A letto senza cena.»
Ma la fortuna, si sa, è cieca. E dai fagioli nacque una pianta altissima che forò le nubi in cielo. Giacomino al di sopra delle nuvole trovò un castello abitato da un gigante, tanto cattivo quanto tontolone. Giacomino non solo sfuggì facilmente alla caccia dell’orco, dotato di un finissimo odorato che gli consentiva di rilevare la presenza dei cristianucci, ma gli rubò prima delle monete d’oro, poi una gallina che faceva uova d’oro e infine un’arpa magica. A questo punto il candido bimbo ammazza l’orco e così, Giacomino e sua madre, vissero felici con l’oro prodotto in abbondanza dalla gallina. Dicono che le favole abbiano una morale ma io dubito che ciò sia vero. Se la morale è rubare a un tontolone e poi ammazzarlo mi pare che questa favola non contenga insegnamenti degni di essere tramandati ai posteri. Ben altro insegnamento è quello che ci perviene invece dalla vita reale di Villafrati.
Questa nostra favola vera incomincia all’incirca nell’anno 1760, periodo che vede gli abitanti di Villafrati, gente industriosa e attiva, che sprizza simpatia da tutti i pori, interrogarsi sul proprio futuro. Questa popolazione ingegnosa non si incrementava al ritmo che ci si aspetterebbe in un paese ubicato in terra così fertile. Evidentemente l’agricoltura da sola non bastava. Accadde allora, dopo la metà del Millesettecento, che si pensò di estrarre il gesso, di lavorarlo e di commercializzarlo. Le cave si trovano in direzione di Ciminna e di Baucina, in località Serra di Capezzagna. Per estrarre qualche cosa dalla natura le sole mani dell’uomo non sono bastanti. Occorrono la forze dirompenti prodotte dalla polvere da sparo, bene pigiata in mine fatte in casa e che venivano fatte brillare in buche profonde da un metro a un metro e mezzo, sulla base della roccia che si voleva ottenere. E questo era solo il primo passo! La favola che stiamo narrando è forse la più bella che sia nata spontaneamente dalla terra di Sicilia, giacché uomini che erano stati lasciati in balia di sé stessi, senza alcun aiuto esterno, hanno saputo risolvere i propri problemi. Facciamo adesso conoscenza con un nuovo personaggio assai importante: l’asinello. L’unico modo per trasportare il gesso, sia quello estratto e dopo quello lavorato, era a dorso di mulo. I pezzi di pietra estratta pesavano mediamente 20 chilogrammi ciascuno e sull’asinello venivano caricati quattro di questi sassi e il ciucchino imboccava la strada del ritorno a Villafrati trasportando circa 100 chili per volta. Alla periferia della città, nei quartieri di Castello e di Casale, erano sorte delle piccole case, chiamate “carcare” termine da cui successivamente presero nome le vie, di cui ne vediamo una nella foto. Similmente a molte sue consorelle la strada si inerpica su per i colli che menano alle più strette calli che come ragnatele disegnano e ricordano il passaggio dell’uomo sulla nuda terra. Carcare era la casa di circa 10 metri quadri costruita dagli stessi “issalora” con pietra e malta di gesso e nel loro interno ci stava una fornace a tronco di cono con una base tra i due e i tre metri al massimo. Nel quartiere di Castello se ne contarono 30, tre erano a monte della attuale via mercato e cinque nella via San Lorenzo. Nel periodo di massima prosperità dell’industria del gesso Villafrati toccò una popolazione di… asinelli di 200 unità. L’asino rappresentava la possibilità di lavorare. Spontanea è l’associazione con il capolavoro del neorealismo “Ladri di biciclette” del 1948 di Vittorio De Sica. A Roma, nel secondo dopoguerra, la bicicletta offriva una possibilità di lavoro, così come gli asinelli di Villafrati nel corso di circa due secoli, dal 1760 al 1960. E altrettanto spontanea è un’altra associazione, questa però alla rovescia. Infatti mi immagino gli abitanti di Villafrati tornare a casa, la sera, tutti bianchi di gesso, come se fossero dei pesciolini infarinati. All’opposto, a Milano, per un lungo arco di tempo a partire dal 1387, quando Gian Galeazzo Visconti istituì la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, la città meneghina si trasformò in un porto per consentire lo scarico, vicino alla cattedrale, del marmo di Candoglia necessario per l’edificazione della chiesa. Nel centro città zampillò magicamente un laghetto (tuttora a Milano c’è la via Laghetto a ricordo di quei tempi) e attorno a quel laghetto vissero, lavorarono, si dannarono e morirono i “tencitt”, ovvero gli scaricatori di carbone sempre neri (“tenc” in dialetto lombardo significa sporco).
Quindi mentre a sud ci sono i bianchi gessai, o “issalori”, laboriosi e produttivi perché lavoravano per le proprie famiglie, al nord abbiamo i “tencitt”, neri come diavoli vomitati dall’inferno, e le loro donne erano le famigerate streghe, e al numero 2 di via del Laghetto abitava la loro caporiona e sul terrazzo di quella casa di notte si tenevano i sabba.
Le due situazioni descritte sono l’una all’opposta dell’altra, non solo per il colore della pelle colorata di bianco per gli uni e di nero per gli altri, ma principalmente perché in Sicilia si sgobbava duramente per la sopravvivenza mentre a Milano ci si dannava in condizioni disumane per il prestigio dei potenti. Ma la morale delle due storie è una sola, dirla è superfluo, basta solo avere detto questa parola… e credo che ognuno sappia quale sia.
© foto Carlo Pollaci
- © testo Geo Portaluppi
Stefano Todde 22/03/2010 22:23
molto bella anche questa.