per te, che cosa non dovrebbe mai essere fotografato?
dico: un fotoamatore come me, come tanti qui(evoluto, più o meno no importa) che cosa dovrebbe rinunciare a fotografare?
quali sono per te i temi tabù?
dico: un fotoamatore come me, come tanti qui(evoluto, più o meno no importa) che cosa dovrebbe rinunciare a fotografare?
quali sono per te i temi tabù?
Ma Dmitrij, questa è una questione soggettiva! Per me potrebbe essere una cosa, per te un'altra. In arte non ci sono confini.
invece uno c'è....
il RISPETTO
tutto può essere fotografato, dipende da come lo si fa...e da cosa si vuol dire.
tantissima letteratura in proposito.
terreno minato: eros e guerra
solo i grandi riescono a "fotografare" , e non a fare scempi.
Vale a dire essere dotati di ottima padronanza del mezzo "fotocamera" e ottima padronanza del mezzo "cervello"....spesso i due non vanno in sintonia...
esempi: basta aprire un giornale di moda e di attualità, e non solo
Messaggio Modificato (15:24)
il RISPETTO
tutto può essere fotografato, dipende da come lo si fa...e da cosa si vuol dire.
tantissima letteratura in proposito.
terreno minato: eros e guerra
solo i grandi riescono a "fotografare" , e non a fare scempi.
Vale a dire essere dotati di ottima padronanza del mezzo "fotocamera" e ottima padronanza del mezzo "cervello"....spesso i due non vanno in sintonia...
esempi: basta aprire un giornale di moda e di attualità, e non solo
Messaggio Modificato (15:24)
vero. immortali sono immortali. loro possono fare. e devono. per dire, devono fare. ma dico: tema più per terra. penso a maschera di venezia o bimbo alla recita del natale. mi spiego? o è tabù anche questo? (come rai con san toro :-)
tabù lo crea il nostro cervello, la nostra cultura pigra
i soggetti che tu citi , essendo strafotografati, sono noiosissimi....ma anche qui dipende dalla capacità di "dire" del nuovo in un argomento vecchio
mica da tutti....ma ci si può provare, perchè no?
personalmente non fotografo il sangue.
Violerei una intimità fisica e una fragilità indifesa in quel momento
Messaggio Modificato (13:27)
i soggetti che tu citi , essendo strafotografati, sono noiosissimi....ma anche qui dipende dalla capacità di "dire" del nuovo in un argomento vecchio
mica da tutti....ma ci si può provare, perchè no?
personalmente non fotografo il sangue.
Violerei una intimità fisica e una fragilità indifesa in quel momento
Messaggio Modificato (13:27)
Più che rispetto lo chiamerei buon gusto. E poi io parlavo di arte.
Nei giornali di moda e attualità lo scopo del fotografo non è di creare opere d'arte, ma di colpire chi guarda, anche basso. E ci riescono benissimo.
Nei giornali di moda e attualità lo scopo del fotografo non è di creare opere d'arte, ma di colpire chi guarda, anche basso. E ci riescono benissimo.
io lo chiamo RISPETTO.
conosco il significato delle parole.
qui parlare di arte mi sembra eccessivo.
Messaggio Modificato (15:25)
conosco il significato delle parole.
qui parlare di arte mi sembra eccessivo.
Messaggio Modificato (15:25)
tutto in parentesi(che poi a pensare: la noia è grande argomento. è che temi spesso sono trovati in corsa e presi senza pensiero e non cercati da prima. dico da foto amatore come me.)
per me cosa che non deve essere in foto mai più è sole in cartolina.
per me cosa che non deve essere in foto mai più è sole in cartolina.
io non fotografo storpi che chiedono l'elemosina ma se praticano uno sport si
26.10.10, 12:36
Messaggio 10 di 71
per me non ci sono temi tabù, ci sono temi difficili. la miseria per esempio (gli storpi di cui parla ivano). ci sono centinaia di foto che hanno la pretesa di rappresentarla e invece la producono la miseria.
@visceglia volevo dire quello che hai detto te... grazie
dice Dmitrij (... mio generale)
"in foto mai più è sole in cartolina"
ahahhahhhahahaha
ahahahahhahahahahah
come sono daccordooooooooooooo
Messaggio Modificato (15:55)
"in foto mai più è sole in cartolina"
ahahhahhhahahaha
ahahahahhahahahahah
come sono daccordooooooooooooo
Messaggio Modificato (15:55)
26.10.10, 14:01
Messaggio 13 di 71
a prescindere dal fatto che molta gente NON dovrebbe fotografare alcunchè... ha ragione lucy ... ciò che dovrebbe essere sempre fotografato è il rispetto nei confronti propri del soggetto sia esso umano animale o cosa e degli osservatori.
comunque quello che non dovrebbe essere mai fotografato è il disagio esistenziale altrui per il gusto di farlo. questo lo possono fare solo coloro che quelle immagini le utilizzano per scopi ben precisi finalizzati ad una comunicazione di un messaggio sociale ed alla ricerca di partecipazione non sterile, ma fattiva. Lo possono fare solo coloro che credono che quel tipo di scatto sia utile non per se stesso ma soprattutto per chi è oggetto della fotografia.Solo chi non si pascia davanti ad uno storpio e non lo fa diventare un HDR leccato. Solo chi non vede in questo soggeto una sorta di !animale da circo" da mostrare agli amici o presunti tali. Solo chi non va in vacanza ed intanto che c'è....
chi fotografa un derelitto , un povero, un indifeso , in definitiva un "altro" solo per il gusto di farlo, per ottenere la falsa partecipazione, per sentirsi dire " uh che bella foto di quel mendicante" " la vita è tremenda" per allegarla ad un portfolio pieno di gatti, girasoli e rotoballe di fieno, per poi quasi scusarsi per quella foto allora per me questo è un persona indegna di tenere in mano una macchina fotografica.
Dato che l'argomento mi interessa mi permetto di allegare di seguito due miei interventi. lo so sono lunghi e li ho già inviati... ma il problema si ripete e ringrazio Dmitrj per averlo riproposto.
Ah dimenticavo... non siete obbligati a leggerli... ihihih
QUESTO IL PRIMO
UMANITARIO VS UMANISTICO
Mi e Vi pongo una domanda
La fotografia, sempre più, come veicolo di grande diffusione per molteplici argomenti sembra trovare nel campo della solidarietà sociale un purtroppo facile terreno di conquista. Pare che basti un’ immagine di un bimbo un po’ trasandato, per farci saltare dalla sedia ed inveire contro una società in cui troppe sono le differenze tra il mondo civilizzato e quello, chissà come mai, definito terzomondista.
Bene. tutto questo è giusto. Chi più chi meno, intenzionalmente o a posteriori trova in quelle immagini spunti di riflessione, occasioni per meditare ma talvolta, anzi spesso, queste immagini lasciano molti solo in modo apparente solidali, spesso indifferenti.
Certo diverso è porre gli occhi su un’immagine di Salgado o di McCurry piuttosto che su una propria. Questa differenza fondamentale talvolta non sta nel singolo fotogramma, spesso tecnicamente e formalmente valido, ma nella storia personale dell’autore, nel suo background culturale, nella sua concezione di vita, in definitiva nella sua più profonda coscienza..
Certo è anche che non si può paragonare un reporter che ha destinato la propria esistenza ad un solo ed unico scopo, ad un, tanto per dire ingegnere, notaio o farmacista appassionato cultore dell’arte fotografica e definito usualmente con un termine a mio avviso limitativo “fotoamatore”. Il distinguo a mio avviso è necessario e non sarebbe culturalmente corretto non farlo.
Ma il problema è un altro, quello della domanda del titolo.
Ma perché la fotografia che parla dell’uomo è diventata “fotografia umanitaria” e non “umanistica”?
Mi sembra molto rilevante la questione. la prima sembra quasi essere un tributo o un dovere del ricco verso il povero, una sorta, certe volte, di “contentino” , un fazzoletto per asciugarsi le lacrime della propria la coscienza e stare in pace con se stesso, un tributo ed un elogio del singolo che da osservatore estraneo vuole documentare la diversità e la differenza per non tanto trarne un personale giovamento quanto per definirsi in un certo modo nell’ambito degli stilemi propri della società civile. Mi pare questa fotografia spesso povera di umanità ma quasi autoreferenziale, forse egoista e poco attenta alla radice del problema quanto più indirizzata, soprattutto grazie a facili strumenti di divulgazione di massa, opportunità mass medianiche all’idea di una facile, estemporanea e leggera forma di comunicazione sociale.
Come la fotografia umanitaria può fare il passo ulteriore e diventare umanistica”?
A mio avviso mentre il primo termine sottintende una sorta di monetizzazione della nostra sensibilità nel confronto e nel rispetto di situazioni che ci possono vedere attori o semplici spettatori, il secondo fa riferimento ad un atteggiamento interiore ad una partecipazione attiva ed all’idea che non può essere l’appartenenza ad una classe o ad una società civile la risposta a certi temi fondamentali dell’esistenza umana. Non si può, a mio avviso, delegare ad una particolare situazione la partecipazione.
Credo che proprio per questo motivo la fotografia possa essere uno degli strumenti più significativi per superare l’impasse tra differenti e talvolta antitetici ed insostenibili livelli di esistenza.
Il fotografo in primo luogo partecipa, solo per il fatto di essere presente si adatta o subisce le condizioni di vita che documenta. Il suo prodotto spesso non ha un valore economico tangibile, lo può certo assumere, ma non credo che questo sia lo spirito di chi fa questo genere di lavoro. La fotografia ma questa è un’arma a doppio taglio, tocca le corde della sensibilità e dell’emotività. Sicuramente è un bene ma talvolta questa sua caratteristica è labile perché fa riferimento alla capacità dell’osservatore di farla propria o lasciargli unicamente una piccola traccia.
QUESTO IL SECONDO
IL CAVALIERE E L’OPERAIO – FOTOGRAFO
L’aneddoto racconta di un Cavaliere che, passando lungo una strada vicino ad un cantiere di una cattedrale, incontra un Operaio intento a sbozzare una pietra. Gli chiede:”cosa stai facendo?” e lui gli risponde, senza alzare gli occhi, “sto spaccando una pietra”.
Poco più avanti ne incontra un altro. Stessa domanda ed il secondo gli risponde con fare un po’ distratto ” io sto lavorando, sai ho da mantenere la mia famiglia”.
Procedendo oltre il Cavaliere incontra un terzo scalpellino che, alla solita domanda, con un certo orgoglio gli risponde girandosi verso l’edificio in costruzione ”non vedi? Io sto costruendo una cattedrale”.
Riflettendoci sopra mi sono detto che un fotografo è come uno di quei operai: può scattare una immagine esattamente con lo stesso spirito con cui i tre sbozzavano una pietra.
Come nel racconto, anche in fotografia, ci sono tre tipi di “operai”.
Il primo è colui che fotografa perché la macchina l’ha trovata nell’Uovo di Pasqua o gliela hanno regalato alla Prima Comunione.
Soprattutto ora, in epoca digitale, nulla gli costa ed infatti non si sogna nemmeno di portare a stampare le proprie immagini storte, male esposte, completamente sbagliate ma soprattutto insulse. Se le dimentica presto nell’hard disk del suo computer.
Il secondo operaio è paragonabile al fotografo “vacanziero”.
Per lui la fotografia esiste solo per 15 giorni all’anno, preferibilmente in agosto meglio se in qualche paese più o meno lontano. E’ sempre intento a pulire la lente con gli appositi foglietti e sta molto attento che neppure un granello di sabbia si avvicini al suo prezioso corpo macchina. Quando piove, ma è molto difficile che ciò accada nel deserto tunisino, non lo tocca.
Il terzo operaio fotografo è il “costruttore di cattedrali”. Ha ed usa solo quello che gli serve, gira con 15 chili di attrezzatura sulle spalle ma non ci fa caso, se diluvia è contento. Per lui la fotografia non è un’arte ma un mestiere.
Cerca, sempre, di catturare “l’immagine assoluta”, lo scatto della vita.
Non dice mai che una foto è bella o brutta, sono aggettivi, questi, per lui sbagliati in fotografia.
Prima di andare avanti bisogna però intendersi su cosa sia un “immagine assoluta” e quindi apro un’altra breve parentesi.
La comunicazione visiva viene effettuata mediante due sistemi di trasmissione: la ripresa video e la fotografia.
La nostra retina è in grado di fissare circa 35 immagini al secondo, ma tutte queste immagini scorrono e fuggono via velocemente nel primo caso.
La fotografia grazie alla sua capacità di bloccare la realtà, di fissare, a discrezione dell’autore, un preciso, singolo, unico ed irripetibile istante su un pezzo di carta consente invece di ricordarlo per quello che è. Sta al fotografo di non falsare la realtà, caso mai di filtrarla grazie alla propria sensibilità.
Noi che siamo tutti fotografi dobbiamo decidere quale dei tre tipi di “operai” vogliamo essere.
A questo punto bisogna capire quale immagine si cerca. La fotografia così come molte azioni compiute dall’uomo può essere classificata all’interno di differenti categorie. .
Molte sono appannaggio di fotografi professionisti, richiedono doti, attrezzature e soprattutto esperienza.
Ma esiste una categoria a cui tutti possono arrivare o quanto meno tendere.
E’ quella in cui ciò che più conta è la sensibilità personale, la predisposizione innata, l’amore ed il rispetto verso gli altri e non la tecnologia o i soldi a disposizione.
Questo tipo di fotografia la si può definire umanistica o sociale o, meglio ancora, con le parole di Cornell Capa, “concerned photography”, ossia fotografia impegnata.
E’ definita impegnata perché ha come centro della propria esistenza la l’uomo e direi che è un impegno non da poco. E’ la fotografia che si occupa degli “altri” che spesso sono intesi così da noi solo perché a noi diversi.
Scriveva Henry Cartier Bresson, che, “una fotografia non la si prende ma la si riceve”.
L’atto del ricevere, è tipicamente quello del donare da un lato e di accettare dall’altro. Un regalo viene dato ad un amico, ad una persona cara, non ad uno sconosciuto, non può essere “rubato”. E’ impossibile: sarebbe un paradosso.
In questa fotografia non si ruba niente
Non la fa chi fotografa da distante con un teleobbiettivo perché avvicinarsi, potrebbe essere inopportuno per gli scarponcini da finto esploratore che, comprati per l’occasione, il turista orgogliosamente indossa pensando di essere una sorta di Lawrence d’Arabia del Terzo Millennio. Non la fa chi ed è la cosa peggiore, ritiene il soggetto, a maggior ragione se “esotico”, un qualcosa da mostrare come un animale da circo.
In definitiva quindi il nostro ed unico operaio – fotografo è colui il quale è capace di stringere nel brevissimo istante di un incontro che, seppur cercato, è speso fortuito, un rapporto che rimarrà per sempre.
Un rapporto intimo , di complicità e di condivisione, di rispetto e di riconoscenza, in definitiva di gratitudine perché il nostro sa che, chi è stato ritratto, ti ha voluto regalare se stesso.
In questo senso il fotografare è un atto di profondo amore verso gli altri, non è un imposizione o un’azione di forza che vede nella macchina fotografica l’arma a disposizione del “forte” per imporsi sul più “debole”.
In definitiva consente agli osservatori di poter soffrire o gioire dell’esistenza altrui, e di immedesimarsi in essa solo guardando un supporto bidimensionale, meglio se bianconero. Permette, ma ricordiamoci che gli è stato concesso di farlo, anche agli altri di entrare in sintonia con il suo soggetto che probabilmente mai più incontrerà. Per raggiungere il proprio scopo mette sempre a repentaglio i propri scarponcini, molto lisi e dalle suole bucate.
Questo “operaio” sa che, senza l’altro, torna a casa con il rullino o meglio con la scheda di memoria vuota.
Ma ci stavamo dimenticando di quello da cui tutto è partito: il Cavaliere che incontra gli operai.
Chi è il Cavaliere? Il Cavaliere è l’osservatore che pone una domanda stupida “cosa fai, fotografi?”, “ cosa vuoi che faccia con la macchina in mano” è la scontata risposta ma che, nell’azione dell’ operaio-fotografo, può trovare, a seconda del tipo di risposta che ottiene, un momento di profonda riflessione personale.
Scriveva David Hurn: “ un fotografo ha solo due decisioni fondamentali da prendere: dove mettersi e quando scattare”.
Che poi è lo stesso che dire: pensare a se stesso nel rapporto con gli altri ed agire da solo pensando alla reazione che quanto da lui fatto avrà sugli altri.
Messaggio Modificato (15:11)
comunque quello che non dovrebbe essere mai fotografato è il disagio esistenziale altrui per il gusto di farlo. questo lo possono fare solo coloro che quelle immagini le utilizzano per scopi ben precisi finalizzati ad una comunicazione di un messaggio sociale ed alla ricerca di partecipazione non sterile, ma fattiva. Lo possono fare solo coloro che credono che quel tipo di scatto sia utile non per se stesso ma soprattutto per chi è oggetto della fotografia.Solo chi non si pascia davanti ad uno storpio e non lo fa diventare un HDR leccato. Solo chi non vede in questo soggeto una sorta di !animale da circo" da mostrare agli amici o presunti tali. Solo chi non va in vacanza ed intanto che c'è....
chi fotografa un derelitto , un povero, un indifeso , in definitiva un "altro" solo per il gusto di farlo, per ottenere la falsa partecipazione, per sentirsi dire " uh che bella foto di quel mendicante" " la vita è tremenda" per allegarla ad un portfolio pieno di gatti, girasoli e rotoballe di fieno, per poi quasi scusarsi per quella foto allora per me questo è un persona indegna di tenere in mano una macchina fotografica.
Dato che l'argomento mi interessa mi permetto di allegare di seguito due miei interventi. lo so sono lunghi e li ho già inviati... ma il problema si ripete e ringrazio Dmitrj per averlo riproposto.
Ah dimenticavo... non siete obbligati a leggerli... ihihih
QUESTO IL PRIMO
UMANITARIO VS UMANISTICO
Mi e Vi pongo una domanda
La fotografia, sempre più, come veicolo di grande diffusione per molteplici argomenti sembra trovare nel campo della solidarietà sociale un purtroppo facile terreno di conquista. Pare che basti un’ immagine di un bimbo un po’ trasandato, per farci saltare dalla sedia ed inveire contro una società in cui troppe sono le differenze tra il mondo civilizzato e quello, chissà come mai, definito terzomondista.
Bene. tutto questo è giusto. Chi più chi meno, intenzionalmente o a posteriori trova in quelle immagini spunti di riflessione, occasioni per meditare ma talvolta, anzi spesso, queste immagini lasciano molti solo in modo apparente solidali, spesso indifferenti.
Certo diverso è porre gli occhi su un’immagine di Salgado o di McCurry piuttosto che su una propria. Questa differenza fondamentale talvolta non sta nel singolo fotogramma, spesso tecnicamente e formalmente valido, ma nella storia personale dell’autore, nel suo background culturale, nella sua concezione di vita, in definitiva nella sua più profonda coscienza..
Certo è anche che non si può paragonare un reporter che ha destinato la propria esistenza ad un solo ed unico scopo, ad un, tanto per dire ingegnere, notaio o farmacista appassionato cultore dell’arte fotografica e definito usualmente con un termine a mio avviso limitativo “fotoamatore”. Il distinguo a mio avviso è necessario e non sarebbe culturalmente corretto non farlo.
Ma il problema è un altro, quello della domanda del titolo.
Ma perché la fotografia che parla dell’uomo è diventata “fotografia umanitaria” e non “umanistica”?
Mi sembra molto rilevante la questione. la prima sembra quasi essere un tributo o un dovere del ricco verso il povero, una sorta, certe volte, di “contentino” , un fazzoletto per asciugarsi le lacrime della propria la coscienza e stare in pace con se stesso, un tributo ed un elogio del singolo che da osservatore estraneo vuole documentare la diversità e la differenza per non tanto trarne un personale giovamento quanto per definirsi in un certo modo nell’ambito degli stilemi propri della società civile. Mi pare questa fotografia spesso povera di umanità ma quasi autoreferenziale, forse egoista e poco attenta alla radice del problema quanto più indirizzata, soprattutto grazie a facili strumenti di divulgazione di massa, opportunità mass medianiche all’idea di una facile, estemporanea e leggera forma di comunicazione sociale.
Come la fotografia umanitaria può fare il passo ulteriore e diventare umanistica”?
A mio avviso mentre il primo termine sottintende una sorta di monetizzazione della nostra sensibilità nel confronto e nel rispetto di situazioni che ci possono vedere attori o semplici spettatori, il secondo fa riferimento ad un atteggiamento interiore ad una partecipazione attiva ed all’idea che non può essere l’appartenenza ad una classe o ad una società civile la risposta a certi temi fondamentali dell’esistenza umana. Non si può, a mio avviso, delegare ad una particolare situazione la partecipazione.
Credo che proprio per questo motivo la fotografia possa essere uno degli strumenti più significativi per superare l’impasse tra differenti e talvolta antitetici ed insostenibili livelli di esistenza.
Il fotografo in primo luogo partecipa, solo per il fatto di essere presente si adatta o subisce le condizioni di vita che documenta. Il suo prodotto spesso non ha un valore economico tangibile, lo può certo assumere, ma non credo che questo sia lo spirito di chi fa questo genere di lavoro. La fotografia ma questa è un’arma a doppio taglio, tocca le corde della sensibilità e dell’emotività. Sicuramente è un bene ma talvolta questa sua caratteristica è labile perché fa riferimento alla capacità dell’osservatore di farla propria o lasciargli unicamente una piccola traccia.
QUESTO IL SECONDO
IL CAVALIERE E L’OPERAIO – FOTOGRAFO
L’aneddoto racconta di un Cavaliere che, passando lungo una strada vicino ad un cantiere di una cattedrale, incontra un Operaio intento a sbozzare una pietra. Gli chiede:”cosa stai facendo?” e lui gli risponde, senza alzare gli occhi, “sto spaccando una pietra”.
Poco più avanti ne incontra un altro. Stessa domanda ed il secondo gli risponde con fare un po’ distratto ” io sto lavorando, sai ho da mantenere la mia famiglia”.
Procedendo oltre il Cavaliere incontra un terzo scalpellino che, alla solita domanda, con un certo orgoglio gli risponde girandosi verso l’edificio in costruzione ”non vedi? Io sto costruendo una cattedrale”.
Riflettendoci sopra mi sono detto che un fotografo è come uno di quei operai: può scattare una immagine esattamente con lo stesso spirito con cui i tre sbozzavano una pietra.
Come nel racconto, anche in fotografia, ci sono tre tipi di “operai”.
Il primo è colui che fotografa perché la macchina l’ha trovata nell’Uovo di Pasqua o gliela hanno regalato alla Prima Comunione.
Soprattutto ora, in epoca digitale, nulla gli costa ed infatti non si sogna nemmeno di portare a stampare le proprie immagini storte, male esposte, completamente sbagliate ma soprattutto insulse. Se le dimentica presto nell’hard disk del suo computer.
Il secondo operaio è paragonabile al fotografo “vacanziero”.
Per lui la fotografia esiste solo per 15 giorni all’anno, preferibilmente in agosto meglio se in qualche paese più o meno lontano. E’ sempre intento a pulire la lente con gli appositi foglietti e sta molto attento che neppure un granello di sabbia si avvicini al suo prezioso corpo macchina. Quando piove, ma è molto difficile che ciò accada nel deserto tunisino, non lo tocca.
Il terzo operaio fotografo è il “costruttore di cattedrali”. Ha ed usa solo quello che gli serve, gira con 15 chili di attrezzatura sulle spalle ma non ci fa caso, se diluvia è contento. Per lui la fotografia non è un’arte ma un mestiere.
Cerca, sempre, di catturare “l’immagine assoluta”, lo scatto della vita.
Non dice mai che una foto è bella o brutta, sono aggettivi, questi, per lui sbagliati in fotografia.
Prima di andare avanti bisogna però intendersi su cosa sia un “immagine assoluta” e quindi apro un’altra breve parentesi.
La comunicazione visiva viene effettuata mediante due sistemi di trasmissione: la ripresa video e la fotografia.
La nostra retina è in grado di fissare circa 35 immagini al secondo, ma tutte queste immagini scorrono e fuggono via velocemente nel primo caso.
La fotografia grazie alla sua capacità di bloccare la realtà, di fissare, a discrezione dell’autore, un preciso, singolo, unico ed irripetibile istante su un pezzo di carta consente invece di ricordarlo per quello che è. Sta al fotografo di non falsare la realtà, caso mai di filtrarla grazie alla propria sensibilità.
Noi che siamo tutti fotografi dobbiamo decidere quale dei tre tipi di “operai” vogliamo essere.
A questo punto bisogna capire quale immagine si cerca. La fotografia così come molte azioni compiute dall’uomo può essere classificata all’interno di differenti categorie. .
Molte sono appannaggio di fotografi professionisti, richiedono doti, attrezzature e soprattutto esperienza.
Ma esiste una categoria a cui tutti possono arrivare o quanto meno tendere.
E’ quella in cui ciò che più conta è la sensibilità personale, la predisposizione innata, l’amore ed il rispetto verso gli altri e non la tecnologia o i soldi a disposizione.
Questo tipo di fotografia la si può definire umanistica o sociale o, meglio ancora, con le parole di Cornell Capa, “concerned photography”, ossia fotografia impegnata.
E’ definita impegnata perché ha come centro della propria esistenza la l’uomo e direi che è un impegno non da poco. E’ la fotografia che si occupa degli “altri” che spesso sono intesi così da noi solo perché a noi diversi.
Scriveva Henry Cartier Bresson, che, “una fotografia non la si prende ma la si riceve”.
L’atto del ricevere, è tipicamente quello del donare da un lato e di accettare dall’altro. Un regalo viene dato ad un amico, ad una persona cara, non ad uno sconosciuto, non può essere “rubato”. E’ impossibile: sarebbe un paradosso.
In questa fotografia non si ruba niente
Non la fa chi fotografa da distante con un teleobbiettivo perché avvicinarsi, potrebbe essere inopportuno per gli scarponcini da finto esploratore che, comprati per l’occasione, il turista orgogliosamente indossa pensando di essere una sorta di Lawrence d’Arabia del Terzo Millennio. Non la fa chi ed è la cosa peggiore, ritiene il soggetto, a maggior ragione se “esotico”, un qualcosa da mostrare come un animale da circo.
In definitiva quindi il nostro ed unico operaio – fotografo è colui il quale è capace di stringere nel brevissimo istante di un incontro che, seppur cercato, è speso fortuito, un rapporto che rimarrà per sempre.
Un rapporto intimo , di complicità e di condivisione, di rispetto e di riconoscenza, in definitiva di gratitudine perché il nostro sa che, chi è stato ritratto, ti ha voluto regalare se stesso.
In questo senso il fotografare è un atto di profondo amore verso gli altri, non è un imposizione o un’azione di forza che vede nella macchina fotografica l’arma a disposizione del “forte” per imporsi sul più “debole”.
In definitiva consente agli osservatori di poter soffrire o gioire dell’esistenza altrui, e di immedesimarsi in essa solo guardando un supporto bidimensionale, meglio se bianconero. Permette, ma ricordiamoci che gli è stato concesso di farlo, anche agli altri di entrare in sintonia con il suo soggetto che probabilmente mai più incontrerà. Per raggiungere il proprio scopo mette sempre a repentaglio i propri scarponcini, molto lisi e dalle suole bucate.
Questo “operaio” sa che, senza l’altro, torna a casa con il rullino o meglio con la scheda di memoria vuota.
Ma ci stavamo dimenticando di quello da cui tutto è partito: il Cavaliere che incontra gli operai.
Chi è il Cavaliere? Il Cavaliere è l’osservatore che pone una domanda stupida “cosa fai, fotografi?”, “ cosa vuoi che faccia con la macchina in mano” è la scontata risposta ma che, nell’azione dell’ operaio-fotografo, può trovare, a seconda del tipo di risposta che ottiene, un momento di profonda riflessione personale.
Scriveva David Hurn: “ un fotografo ha solo due decisioni fondamentali da prendere: dove mettersi e quando scattare”.
Che poi è lo stesso che dire: pensare a se stesso nel rapporto con gli altri ed agire da solo pensando alla reazione che quanto da lui fatto avrà sugli altri.
Messaggio Modificato (15:11)
26.10.10, 14:03
Messaggio 14 di 71
per ivano
"io non fotografo storpi che chiedono l'elemosina ma se praticano uno sport si"
SOLO UNA COSA: GRANDE.
luca
"io non fotografo storpi che chiedono l'elemosina ma se praticano uno sport si"
SOLO UNA COSA: GRANDE.
luca
Per me tutto sta in quello che il fotografo intende fare e che cosa vuol far vedere ... per dire ..il fotoreporter che va in guerra e ovvio che fa delle foto abbastanza crude..., se faccio un repotage di moda sarà diverso , come quando si fotografa la natura ...e cosi via , è OVVIO che poi in tutto questo sta la sensibilità di ognuno nel rispetto delle persone e cose.....(anche verso gli animali )
o..no?
ciao Ross.;-)
o..no?
ciao Ross.;-)